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venerdì 21 gennaio 2011

Canterò, ti seguirò, finchè vivrò

Scorrendo da un sito all'altro ho trovato questo racconto su un sito napoletano che mi ha attirato. Lo pubblico per farvelo leggere anche a voi, se volete commentatelo oppure raccontate com'è la vostra domenica, ve li pubblicherò...



I gradoni dei distinti si riempiono lentamente e quando l’arbitro fischia l’inizio alcuni sono fuori al chiosco a fare la scorta dei borghetti. La partita la
guardo sempre con la faccia appiccicata sul plexiglass, all’altezza del campo e dei giocatori. Quando mi giro per capire quanti ne siamo mi accorgo che sono passati vent’anni e le facce dei vecchi sono sempre le stesse, mentre noi, che una volta eravamo piccoli e che per vedere le partite senza pagare chiedevamo il piacere per entrare al fianco di qualche adulto, oggi abbiamo pance pronunciate, barbe sfatte e gli occhi affossati di chi lavora tutta la settimana. Venti anni fa non si mangiava neanche la domenica per andare allo stadio e la partita cominciava dal lunedì precedente. I derby con la Salernitana, la Cavese, il Benevento, ma anche il Catania, il Perugia, il Palermo. Gli anni alla ribalta in serie C fino alla promozione in B tante volte fallita, come quell’anno a Giarre in Sicilia, quando partirono in duemila, e altri cinquemila si riversarono in piazza Mercato a sentire la radio. Perdemmo due a zero. E quella volta a Salerno, che alla fine non ci fecero entrare. Con la salernitana erano derby tiratissimi che finivano sempre in pareggio, come quello storico del ’93, quando a tempo scaduto una punizione da distanza siderale di Fermanelli si insaccò alle spalle del portiere granata. La rincorsa di Fermanelli che dopo il gol attraversa tutto l’Arechi per andare a esultare sotto il settore ospiti resta una delle istantanee più esaltanti che conservano i tifosi. In serie C si giocava la Coppa Italia e a volte venivano le squadre di serie A. Ricordo contro la Fiorentina, il Pescara, l’Atalanta. Nel 1987 giocammo contro la Juventus a Torino e perdemmo quattro a due dopo i calci di rigore. Il giorno dopo sul Corriere dello sport apparve il titolo «La Casertana fa arrossire la vecchia signora». Poi andammo in serie B. Quel giorno contro il Monopoli eravamo in diciassettemila allo stadio a salutare la promozione. Ci aspettavano Bologna, Pisa, Reggiana, Lucchese, Brescia, Udinese, Avellino. La prima giornata andammo a vincere a Pisa tre a due. Vincemmo tre a due pure a Bologna. Ma la serie cadetta fu un sogno che si infranse con lo spareggio di Ascoli. Una partita farsa. Il Taranto rimase in B e noi retrocedemmo. Sempre contro il Taranto, come nel 1969, quando in città scoppiarono disordini perché la Casertana, che aveva vinto il campionato, si vide scippare la promozione a favore dei pugliesi, favoriti da un illecito inesistente e dalla pressione di qualche parlamentare locale. Dallo spareggio di Ascoli a oggi solo un lunghissimo declino che dura da vent’anni. I ricordi fanno venire i brividi e portano a galla le lacrime, come quelle di gioia che hanno solcato le nostre facce quando a giugno abbiamo accarezzato il sogno della C1, grazie alla paventata fusione col Marcianise fallito. Fuori al chiosco erano abbracci e dita che non smettevano di strofinare gli occhi. Ritrovare i nemici di un tempo e se ci va bene pure il Verona! E invece l’ennesimo nulla di fatto, ed è ancora serie D. La realtà dura da digerire ci vuole contro il Noto, la Rossanese e il Real Nocera. «Di questi campionati, non ne vogliamo più!». È questo il coro che saluta ogni partita da anni oramai insieme al saluto ai diffidati e a Ciccio Golino, un ragazzo del rione Vanvitelli che veniva sempre in curva, morto in un assurdo incidente stradale. Ma la conta degli spettatori è sempre il risultato più bello di ogni domenica. Mai meno di duemila. A volte tremila. Reduci, innamorati, nostalgici, malati del pallone, soprattutto tifosi legati ad una fede che non conosce categorie.
La Casertana è innanzitutto Caserta, e lo è ancor di più perché bistrattata dalla politica e dimenticata dalla classe imprenditoriale. Il tifo trova proseliti nei luoghi più veraci del centro storico, nelle roccaforti popolari, nei rioni, nei circoli, nelle sale giochi e nei bar che non fanno tendenza, nei paesi e nelle periferie della provincia in cui c’è poco da dirsi e dove non si parla d’altro. Dal Rione Cappiello al rione Vanvitelli, nel parco Ises, nel Rione Tescione. A Cuccagna, a Casagiove e a San Nicola. A San prisco. A Via San Carlo a Via Trento e a Via Acquaviva. Nulla a che vedere con gli ambienti del Basket più ricco e benestante.
La partita con l’Ebolitana è tesa. Loro sono primi, noi secondi. Nei bar non si parla d’altro. Gli Ultras hanno rilevato da poco una saletta sotto ai distinti e lì si incontrano dopo il lavoro. Fanno riunioni, si discute, si organizzano le trasferte. Ci sono tutti stasera, anche i diffidati. Si parla dello striscione da esporre. Mimmo ci conduce alla sua macchina. Ha un cartone pieno di magliette nuove nel cofano. Ci sono anche le spille e gli adesivi del gruppo. «Noi non vogliamo soldi da nessuno, preferiamo fare la colletta fuori alla curva e vendere il materiale. Se ci vogliamo divertire e vogliamo fare una braciata mettiamo dieci euro a testa, compriamo carne e vino un po’ di fumo e stiamo insieme». Mi racconta di quando organizzarono un pullman con i cosentini per andare a mangiare fuori e mi dice che domenica verranno amici sia da Terni che da Avellino. Mimmo è uno dei tanti della curva, ha trentotto anni e tre figli. Il più grande ne ha diciotto, fa il meccanico e qualche volta va in trasferta con il padre. Quando accenna al suo passato gli occhi non tengono lo sguardo e tentennano per l’imbarazzo. Fa riferimento alla repressione, alle diffide e agli incidenti pesanti degli ultimi anni, agli scontri con il Savoia in casa, a Torre del Greco e con il Casarano. Mimmo era tra i ventotto tifosi che hanno raggiunto Mazara del Vallo con quattro macchine e i venticinque di Caltanissetta.
La pioggia non smette di scendere giù ma i ragazzi non si fermano. Qualcuno ha lavorato anche di notte per fare il disegno del bandierone. «Speriamo che domenica non piove, altrimenti niente coreografia. Se domani ci volete dare una mano noi siamo qui dalle nove». E la domenica che sembrava non voler arrivare mai si presenta all’improvviso e ti stringe lo stomaco, ti sveglia presto. Passano gli anni ma l’emozione ti fotte sempre. E’ la rabbia, la sete di rivalsa viva più che mai. Alle 11,30 ne eravamo già una cinquantina al campo. Gianluca viene da Campagna, vicino Salerno. La moglie lo ha accompagnato alla stazione di Eboli, ironia della sorte, ed è partito. Massimo invece, che è in cassa integrazione da quattro anni, mi fa notare che i poliziotti che fanno servizio alla partita sono gli stessi che presidiano il palazzo della Provincia sul corso durante la settimana. Quando arriva il pullman della squadra avversaria piovono fischi e insulti. Mancano tre ore alla partita. Fuori al chiosco il tempo si ammazza con qualche borghetto. Arrivano alla spicciolata un po’ tutti. C’è fermento, forse siamo cinquemila. Aprono i cancelli, un segno di intesa e si entra senza parlare. (Nicola Bottalico)

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